«Gyō»: il Cammino come ascesi e sacrificio di sé

بسم الله الرحمن الرحيم

«[..] In senso letterale, «gyō» significa «camminare», o «il cammino». Utilizzato dapprima per designare la pratica di chi segue una forma particolarmente difficile di ricerca religiosa della perfezione, il termine si è in seguito esteso alle arti tradizionali, che si basano tutte - ricordiamolo - su una ricerca della perfezione.
Il significato del «gyō» appare chiaramente nell'approccio di certi monaci buddhisti che, sul monte Hiei, praticano mille giorni di gyō per arrivare al livello di «ajari» [«insegnante», o «maestro»]; l'espressione «Sen Nichi Kai Ho Gyō» designa il fatto di percorrere le montagne per mille giorni recitando e meditando frasi sacre.


Il monte Hiei domina l'immensa distesa del lago Biwa, avendo, sull'altro lato, la città di Kyoto, che fu città imperiale per più di un millennio. Nel 788 il monaco Saicho vi costruì un monastero buddhista della corrente Tendai. Da allora il monte Hiei rimase un luogo centrale per questa corrente e, in ogni fase della storia del Giappone, ebbe un ruolo importante nell'evoluzione del pensiero religioso e nei suoi rapporti con i poteri successivi. Ancora oggi, esiste sul monte Hiei un tempio buddhista collegato con una corrente mistica basato sullo studio della dottrina del Buddha e sulla pratica di rituali destinati a incarnare questa dottrina, tra i quali una forma di gyō risalente al IX secolo.
Per accedere al superamento della vita profana, questa corrente esige il passaggio attraverso prove di meditazione che richiedono un lavoro del corpo estremamente spinto. Non basta studiare e meditare la dottrina, bisogna anche trasformarsi nel corpo e nello spirito. Il passaggio dal profano al sacro richiede un indispensabile distacco fisico, poiché la vera alleanza di corpo e spirito è realizzata soltanto quando si è pervenuti ad alleggerirsi del peso e delle pastoie del corpo.

Il gyō di Shunsho
Fu così che il 28 Marzo 1966 Shunsho, a ventiquattro anni, cominciò questo gyō di mille giorni.
Quando esce dal tempio, alle 2 del mattino, il monte Hiei è coperto da trenta centimetri di neve. Shunsho è a piedi nudi nei sandali di paglia. Il vento ghiacciato gli sferza le guance e il freddo gli penetra nelle ossa. Cammina fino alle 8 del mattino, fermandosi nei trecento luoghi prescritti per pregare, lungo un percorso di trenta chilometri.
Per cento giorni, qualche che sia la sua condizione fisica, quali che siano le condizioni meteorologiche, deve proseguire il suo cammino. L'incidente o la malattia non giustificano nessuna interruzione del suo gyō, poiché provengono da lui stesso. Prendere respiro sarebbe uno scacco: Shunsho sarebbe escluso a vita dal gyō.

Dopo il suo primo gyō di cento giorni, Shunsho conduce la vita del monaco, che consiste principalmente nello studiare la dottrina buddhista, nel pregare, nel meditare ed effettuare vari tipi di gyō. Nel 1974 e 1975 realizza per due volte cento giorni consecutivi di gyō, come il primo anno. Poi, nel 1976, il gyō raddoppia: Shunsho cammina per duecento giorni, senza sosta.

Anche nel 1977 dovrebbe camminare per duecento giorni ma, arrivato al 565° giorno, sente improvvisamente un dolore lancinante all'addome. Da qualche tempo aveva male al ventre, ma continuava il suo gyō quotidiano, aspettando che i dolori si attenuassero. Quel giorno, invece, verso l'una del mattino, il male si aggrava; Shunsho non riesce neppure a tenersi in piedi e la sua respirazione è dolorosa. Vedendolo respirare così a fatica gli altri monaci si preoccupano, ma non possono far nulla per lui, poiché non è possibile ricorrere a un medico durante il gyō: la sanzione del fallimento è la morte.
Verso le 2 del mattino Shunsho cerca di alzarsi, di vincere il dolore, ma non riesce a camminare. Due novizi gli prestano le proprie spalle e, mettendosi in mezzo a loro, egli fa qualche metro, barcollando a ogni passo. E tuttavia ha trenta chilometri da percorrere sulla montagna, un vero calvario. Impiegherà diciannove ore, invece di sei, per fare quel percorso, e ripartirà cinque ore più tardi. E così per centotrentaquattro giorni consecutivi, senza tregua.
Immediatamente dopo di ciò, la tradizione vuole che Shunsho entri in una cella del tempio e che vi rimanga nove giorni, per pregare e meditare, senza mangiare, senza bere, senza dormire né stendersi.

Shunsho, nel 1978, percorre sessanta chilometri al giorno per cento giorni consecutivi, poi, nel 1979, ottantaquattro chilometri per cento giorni, e infine trenta chilometri, sempre per cento giorni. Allora si completano i mille giorni di gyō di Shunsho, dopo 381.400 chilometri di cammino sulle montagne. Aveva trentasei anni, ed era l'ottavo ad averlo fatto, dopo il 1925.

Durante tutto questo cammino, il monaco indossa la veste dei morti, bianca, e porta un cappello di paglia a forma di ninfea, a ricordo della ninfea presso la quale meditò il Buddha. Porta con sé un coltellaccio per uccidersi, in caso di fallimento. Due volte al giorno, a mezzogiorno e alla sera, mangia due patate bollite in acqua salata o delle tagliatelle rosolate e, qualche volta, della verdura, con succo di soia spremuta come unica bevanda.
Ai giorni nostri questa marcia rappresenta certamente la forma estrema di gyō. Essa si perpetua da mille anni e illustra pienamente il senso originale del gyō, processo mediante il quale un uomo si mette sulla via [«dō»] che ricerca. Con maggiore o minore intensità, questo tipo di approccio esiste anche nelle varie arti giapponesi, che implicano un'immersione totale dell'uomo nelle proprie opere o nella pratica della propria arte.

Interiorizzazione e kata
Il gyō presenta un aspetto introspettivo, ma non orientato verso un'oggettivazione. Tutta la pratica è impregnata dal rituale. Ogni passo, che è più di un semplice movimento fisico, deve accompagnarsi alle preghiere e alla meditazione, con il corpo e lo spirito che formano un tutto. Lo stato cercato è «camminare-pregare-meditare», in una forma concreta e unificata. Una pratica del genere necessita di una precisione gestuale e di un orientamento della coscienza legata al gesto. Il monaco Shunsho si inserisce perfettamente nel quadro di una prassi formalizzata. Il gyō è quindi un modo di praticare un rituale ripetitivo, secondo un processo di interiorizzazione e un impegno della propria vita. [..]

Nell'approfondimento di un'arte tradizionale giapponese, il gyō interviene soltanto quando un soggetto ha ampiamente superato la fase dell'automatizzazione delle tecniche del kata e può fare affidamento su di esse. Il gyō è uno sforzo per superare il livello sensoriale quotidiano o ordinario. Quale che sia il campo, a un certo momento l'apprendimento del kata segna il passo; il sapere è acquisito e il progredire ristagna. Il gyō è una pratica che permette di strapparsi da questo livello mediante un cambiamento qualitativo di atteggiamento. Essa si situa quindi nella seconda delle fasi che abbiamo distinto, quando cioé, dopo aver appreso le forme tecniche, il soggetto tende a utilizzare l'arte-kata [la specifica attività rituale propria di quell'arte, ndr] per autosuperarsi.

Per costituire il gyō è indispensabile, durante l'esecuzione di un atto, evitare la dispersione verso l'esterno e rivolgersi verso l'interiorità. La linea rigorosa tracciata, in ogni gestualità, dalla forma precisa limitata all'essenziale aiuta a mantenere questo orientamento.
Così Shunsho percorre ogni giorno lo stesso cammino, ma il suo spirito non deve lasciarsi trascinare dalla curiosità o dall'osservazione della natura. Non deve darsi alla percezione dell'esterno, all'investigazione; la sua disposizione è all'opposto di un atteggiamento di interrogazione, base della comprensione scientifica del mondo. Per Shunsho l'esperienza vissuta del suo percorso si avvicina al kata nella misura in cui costituisce un mondo con cui egli deve fondersi, e non oggettivarlo. L'approccio introspettivo tende, qui, a unificare perfettamente ciò che avviene nell'intimo, e non a oggettivarlo. Non vi è perciò una cesura, e l'approccio è doppiamente soggettivo. [..]

Insomma, il kata è la forma pratica, trasmissibile, di una pratica di trasformazione del corpo e dello spirito. Il gyō è nello stesso tempo atto e condizione di spirito, sostiene la pratica del kata quando quest'ultima si approfondisce, ne accentua l'interiorità e la soggettività [o, sarebbe meglio dire, la valenza realizzativa e la capacità trasformante di quella particolare forma rituale, per il soggetto coinvoltovi, ndr]. Questa pratica prende senso perchè, nella concezione giapponese, è attraverso essa che l'uomo può raggiungere lo stato di perfezione. Il rappresenta l'avanzamento nella via che conduce a questa perfezione, con l'idea che percorrere il cammino sia in se stesso il fine.

Il gyō e la morte
Avanzare presuppone dunque la via che porta lontano, ma a prezzo dello sforzo di «camminare» nel senso del gyō. E' una specie di autopersecuzione, mediante la quale si mira a perfezionare la propria esistenza, fornendo al contempo il mezzo per sostenerla lungo l'avanzamento nella via. Molto concretamente, i limiti fisici quotidiani verranno superati. Esistono altri esempi di questo superamento dei limiti nello sforzo fisico, sia che si tratti di realizzazione di una prodezza, di circostanze eccezionali o di certi casi psichiatrici.

Chi fa un gyō si autoimpone un atto difficile. Essere stato capace di sopportarlo è un sostegno per andare più avanti. Non è opportuno definire semplicemente quest'atto come «masochismo»: nella misura in cui l'individuo avanza effettivamente nella via si trasforma, lasciando un'impronta ad ogni passo. Egli deve andare fino al fondamento della propria esistenza, altrimenti non potrà mai vedere, sentire ciò che egli è, conoscere il punto in cui lo spirito e il corpo si trovano realmente in simbiosi.
Questo tentativo può essere analizzato come una riorganizzazione dell'attività percettiva quotidiana e, con ciò, di tutta l'esistenza. Non si tratta, infatti, di cercare un istante di illuminazione, ma di forgiarsi uno stato durevole, condizione dell'esperienza mistica. Ciò che è comune al gyō di Shunsho e alle arti tradizionali sta nel costruire questa riorganizzazione dell'esperienza basandosi su un quadro strutturato. Questo approccio si rafforza e si equilibra principalmente in due modi:
  • mediante la strutturazione precisa dei gesti, delle tecniche o dei rituali inquadrati nei kata, che fa sì che il corpo sia diretto da posture o movimenti prescritti e assimilati per la via;
  • mediante lo sviluppo di un rapporto particolare col tempo, poiché l'interiorizzazione constatata a proposito del gyō e dei kata autorizza a collocare la coscienza in diverse temporalità soggettive, sia alternativamente, sia simultaneamente. [..]

La fatica, il dolore, gli sforzi fisici intensi sono come un punto d'appoggio per allontanarsi dallo stato ordinario del corpo. Questo approccio tende a spezzare l'involucro della vita quotidiana - cioé l'accumulo delle esperienze vissute fino ad allora secondo le regole della socialità - ed a vivere altre esperienze, nuove per il modo di apprendere e di organizzare il vissuto.

L'elemento che determinerà questa riorganizzazione è la morte. Essa diventerà più familiare, malgrado il suo aspetto astratto; è un'intuizione della morte che viene ricercata. Il superamento dei limiti percepiti come quelli del massimo sforzo fisico e la presenza permanente del coltellaccio per mettere fine ai propri giorni in caso di fallimento simboleggiano il legame tra la vita e la morte. L'avvicinarsi della morte appare come una catalizzazione dell'esperienza esistenziale e, ad ogni nuovo sforzo, se ne percepisce il riflesso nel proprio corpo, concretizzando sempre più il suo profilo.

Ma quest'approccio non tende a disprezzare od a minimizzare i piaceri profani. Si tratta di approfondire, di riorganizzare l'esperienza esistenziale della vita e non di negarla, come mostra il modo di rapportarsi al cibo.
Per Shunsho ed i suoi discepoli il cibo dev'essere frugale e semplice. Il condimento dev'essere ridotto al minimo - un po' di sale - al fine di sentir meglio il gusto particolare dell'alimento consumato. Quando mangia, Shunsho deve «unirsi» al cibo che ingerisce. Quest'atto richiede la pienezza dell'essere. Non si tratta di «gustare», cosa che implica un atteggiamento di valutazione, ma di entrare direttamente nell'esperienza di mangiare. Allo stesso modo, ogni esperienza, ogni momento della vita richiede la stessa qualità di presenza totale. [..]»

Liberamente tratto da
"
Kata", ed. Luni

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