L'Islām e la Gente del Libro

بسم الله الرحمن الرحيم

«Nella "definizione coranica" del rapporto tra l'Islām e le altre religioni rivelate - segnatamente il Cristianesimo - sembra rivestire una certa importanza il versetto 64 della terza Sūra, la Sūra della "Famiglia di 'Imrān". Nel render conto di tale versetto, ci baseremo su alcuni tra i commentari coranici più autorevoli e diffusi, e specialmente Tafsīru-l-Qur'āni-l-'azīm di Abū-l-fidā Ismā'īl Ibn Kathīr, Rūhu-l-ma'āni di Mahmūd Al-'Alūsī e Ad-durru-l-manthūr di Jalālu-d-dīn As-Suyūtī, tra le più importanti opere di esegesi coranica, basate sulle opinioni del Profeta Muhammad (صلّى اللَّه عليه و سلّم), dei suoi compagni, e dei santi che succedettero loro nelle generazioni seguenti.


Dice dunque il Testo dell'ultima delle Rivelazioni:

«Di': "Oh gente del Libro, avanti, innalzatevi ad una Parola mediana tra noi e voi: non adorare altri che Dio, non associarGli nulla, e che di noi nessuno prenda altri per "signori" ad esclusione di Dio". E se si allontanano, dite loro: "Rendete testimonianza che siamo sottomessi a Dio"»

Il versetto inizia con un imperativo - "di'", in arabo qul - rivolto da Dio al Suo Profeta Muhammad (صلّى اللَّه عليه و سلّم). Come si sa, infatti, il Corano è la "registrazione" - parola per parola - di quanto l'angelo Gabriele trasmetteva al Profeta direttamente da Dio, per cui in molti passaggi è presente l'indicazione dell'ordine divino a "dire" determinate cose.

D'altra parte, bisogna ricordare che la rivelazione di questo versetto è solitamente ritenuta in relazione con la visita a Medina - sede dove risiedeva il Profeta - di una delegazione di Cristiani arabi provenienti dalla regione del Najran. Durante questa visita - e contrariamente a quanto avvenne in occasione di analoghe visite di delegazioni di Cristiani, specialmente siriani ed abissini - gli ospiti presero a polemizzare col Profeta a proposito di Cristo; fatto particolarmente significativo, diversi commentatori riportano come tale atteggiamento polemico sia risultato sgradito e "pesante" al Profeta, tanto che questi ebbe a dire: «Magari ci fosse un velo tra me e la gente del Najran, così che io non vedessi loro e loro non vedessero me!». Infine, giunse a Muhammad (صلّى اللَّه عليه و سلّم) l'ordine divino di cui si parla nei precedenti versetti (61-63) della Sūra della "Famiglia di 'Imrān": il Profeta, insieme alla propria famiglia, e i Cristiani del Najran avrebbero dovuto invocare la maledizioni di Dio su quale dei due gruppi stesse mentendo. La delegazione cristiana però indietreggiò di fronte alla sfida, e se ne tornò nel Najran dopo aver chiesto la protezione dell'Inviato di Dio, e aver accettato di pagare un tributo.
Si potrebbe dunque intendere come se fosse detto "Di', a proposito di questa faccenda", o anche "Di', in generale a proposito del rapporto con i Cristiani, o con le altre Religioni".

E infatti il discorso che Dio ordina al Suo Profeta di pronunciare è indirizzato apertamente alla "gente del Libro", e cioé a coloro che seguono un Libro celeste (il Vangelo, la Torah, i Salmi, etc.). Si ricordi che la definizione di "gente del Libro" si applica in generale, oltre che agli Ebrei e ai Cristiani, a tutte le Tradizioni di origine divina: sono considerati "gente del Libro" anche i Sabei e gli Zoroastriani, ed anche - perlomeno da una parte dei sapienti islamici - gli Indù e i Buddhisti, mentre non possono esserlo gli aderenti a sette o pseudo religioni, in quanto in tal caso si tratta di espressioni dottrinali del tutto ingannevoli di origine esclusivamente umana - e non divina.
La Legge sacra dell'Islām comunque impone la tolleranza e il rispetto nei confronti della "gente del Libro", una tolleranza dovuta non tanto ad una generica "bontà", quanto alla considerazione dell'origine divina anche delle Rivelazioni precedenti l'Islām, il che implica l'ammissione di una loro "fondatezza" e veridicità, per quanto offuscate da alterazioni o da errate interpretazioni, e per quanto l'Islām si consideri comunque l'espressione finale, compiuta e "riassuntiva" del monoteismo e della dottrina dell'Unità divina (tawhīd), che è il "centro" di ogni Tradizione di origine superiore.

Ed ecco che Dio ordina al Suo Inviato di dire alla "gente del Libro" «Avanti, innalzatevi ad una Parola mediana tra noi e voi». L'espressione ta°ālaw è tradotta qui "avanti, innalzatevi", tenendo conto sia del suo uso comune come esortazione ("su", "avanti"), sia del suo significato etimologico ("salite!", "innalzatevi!", imperativo di ta°āla, dalla radice °-l-a, "essere alto"), che indica con chiarezza una richiesta di "elevazione" a ciò che è "superiore".
Questo elemento "superiore" e "metafisico" al quale si chiede alla "gente del Libro" di "elevarsi" è rappresentato qui da una «Parola (kalima) mediana (sawā') tra noi (Musulmani) e voi (gente del Libro)».

Il termine kalima ("parola") può indicare in generale la "Parola" divina, e questo sia nel senso del "Verbo" - per cui Gesù nell'Islām è kalimatu-llah, "il Verbo, la Parola di Dio", così come il Corano è kalāmu-llah, "la Parola, il Discorso di Dio" - sia nel senso della "Parola" sacra pronunciata dall'uomo - come nel caso della dichiarazione di fede islamica, e in particolare della sua prima parte, lā ilāha illā Allah, "Non v'è divinità all'infuori di Dio", chiamata appunto kalima.
Anche il vocabolo sawā' ("mediana") va valutato attentamente, in quanto la radice s-w-y (dalla quale sawā' deriva etimologicamente) richiama in generale l'idea di "equidistanza", da cui tutto un ordine di significati che comprendono "medietà", "uguaglianza", "giusto mezzo", "equità", ma anche "armonia", "perfezione". Si tratta dunque certo di una "Parola giusta, equilibrata, imparziale, che sia a mezzo tra noi e voi, una Parola nella quale noi e voi siamo uguali", come dice Ibn Kathīr; una parola "sulla quale non si contraddicano la Torah, il Vangelo e il Corano", come si esprime Al-'Alūsī, anche se bisogna riflettere a come il Testo arabo del Corano alluda già nella terminologia usata ad una particolare "sacralità" e "perfezione" di tale Parola, alla quale è necessario "innalzarsi".

Il seguito del versetto "dispiega" il "contenuto" di questa "Parola" sacra e "comune", e ne elenca i tre "concetti" che la costituiscono: e cioè, qualsiasi ne sia la formulazione esteriore, la "Parola mediana" tra l'Islam e le altre Tradizioni divine non può non essere composta dai seguenti elementi "dottrinali".
Come prima cosa «non adorare (lā na°budu) altri che Dio (Allah)». E cioè: l'adorazione - in arabo °ibāda, letteralmente "l'esser servi" - sia rivolta solamente a Lui. Per la retta comprensione di questa frase, si deve tener presente che nella dottrina islamica «Allah è un nome che allude emblematicamente (°alamun alā) al Signore, che sia benedetto, l'Altissimo», come si esprime Ibn Kathīr, o anche, potremmo dire, "all'Essenza" divina, o al "Principio" metafisico supremo. E' dunque ad Allah - coi Suoi 99 "Nomi", secondo un noto detto profetico - e solamente a Lui - in quanto "emblema" ed "espressione" dell'Essenza divina - che si deve "orientare" "l'adorazione", e cioè l'agire rituale fondamentale della Religione, che viene rappresentato dall'idea dell'essere Suoi "servi" (°ibāda).

Da questo consegue il secondo aspetto dottrinale, e cioé «non associarGli (lā nushriku) nulla», e cioè non propendere, nell'adorazione, "per ciò che è altro da Dio, perchè su questo non v'è mai stata divergenza da parte di nessun Profeta e di nessun Libro sacro", come dice Al-'Alūsī, in quanto, secondo la concezione islamica, tutte le Tradizioni divine chiamano all'Unità divina e rifiutano gli idoli. Si tratta qui del divieto "formale" di ogni idolatria, detta in arabo shirk e cioè letteralmente "l'associare" qualcosa a Dio.
Bisogna però fare attenzione a non identificare il rifiuto degli idoli con la negazione di ogni immanenza divina, impostazione questa che nega implicitamente sia la possibilità di conoscerLo, sia la presenza vivificante di alcuni uomini - che si tratti di Profeti, di santi o di rappresentanti autorizzati delle gerarchie tradizionali - che ne aiutano altri, dirigendoli alla Sua adorazione e alla Sua conoscenza.

Per questo il terzo elemento dottrinale del quale si compone la "Parola mediana" è espresso così: «che di noi nessuno prenda altri come "signori" (arbāb) ad esclusione di (min dūni) Dio». Di questa espressione coranica, Ibn Kathīr riporta due interpretazioni che alludono ai due aspetti complementari che ne costituiscono il senso: «Secondo Ibn Jurayj queste parole significano "che tra noi nessuno obbedisca a un altro nella ribellione a Dio", mentre per 'Ikrima il senso è "che tra noi nessuno si prosterni a un altro"». Infatti, da una parte non v'è dubbio che il versetto possa essere inteso nel senso che "un essere umano non deve adorare un altro essere umano" in quanto tale, in quanto cioè essere contingente e creato - si ricordi che nell'Islām la Legge sacra vieta la prosternazione in direzione di una creatura qualsiasi. Dall'altra, viene affermato con chiarezza che qualsiasi "rapporto gerarchico" tra credenti può trovare la sua legittimità solo nel quadro dell'obbedienza e dell'orientamento a Dio - il che è evidentemente tutt'altra cosa dalla negazione di ogni gerarchia. [1]
Detto in altre parole, nell'Islām si ritiene che i Messaggeri divini - tra i quali Mosè e Gesù - non abbiano chiamato le genti tanto "a loro stessi", quanto piuttosto all'adorazione di Dio e alla Sua conoscenza, così che, conseguentemente, lo stesso orientamento "metafisico" è da considerare una caratteristica costitutiva dell'insegnamento impartito dalle gerarchie sacerdotali, religiose e sapienziali - od anche "exoteriche" ed "esoteriche", secondo la terminologia utilizzata da René Guénon.

L'espressione min dūni vuole dire "senza", "ad esclusione di". Più precisamente, il termine avverbiale dūna, oltre a contenere (dalla radice d-w-n) l'idea di "essere in basso", richiama il concetto di non poter giungere in un luogo a causa di un impedimento (da cui il significato "non poter giungere a"), il che illustra ancor più chiaramente come si alluda ad un "orientamento divino" come base necessaria della gerarchizzazione tradizionale - si potrebbe infatti leggere, letteralmente, "che di noi nessuno prenda altri come signori restando al di qua", o "al di sotto di Dio", nell'impedimento cioè ad adorarLo ed a conoscerLo.

Il versetto si conclude infine con queste parole: «E se s'allontanano, dite loro: "Rendete testimonianza (ashhadu) che siamo sottomessi a Dio (muslimūn)». E cioè se la gente del Libro "si allontana", non accettando di "innalzarsi" ad una "Parola di mezzo" costituita dall'adorazione di Dio, dal rifiuto dell'idolatria e da una gerarchizzazione tra i credenti basata sull'orientamento "verticale" e metafisico, allora chiedete loro di attestare apertamente che siete muslimūn, e cioè "Musulmani", o anche "sottomessi a Dio", in quanto il termine Islām - da cui muslim, muslimūn, etc - significa "sottomissione a Dio".
Si richiede quindi alla "gente del Libro", se non sono in grado di "elevarsi" come si è appena spiegato - e cioè, si potrebbe dire, di adempiere con pienezza al compito di adeguamento tradizionale al messaggio divino particolare che costituisce il "deposito tradizionale" loro proprio - il riconoscimento dell'origine divina dell'Islām.

Pare che questo versetto fosse particolarmente caro al Profeta (صلّى اللَّه عليه و سلّم). As-Suyuti infatti riporta come egli fosse solito recitarlo durante l'orazione rituale dell'alba (salātu-l-fajr), dopo aver pronunciato le parole seguenti:

«Dite: "Abbiamo fede in Dio, in ciò che è stato rivelato a noi, in ciò che è stato rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, alle dodici Tribù, in ciò che è stato dato a Mosè e a Gesù, e in ciò che è stato dato ai Profeti dal loro Signore: non facciamo tra loro alcuna differenza, e a Lui noi siamo sottomessi"» (II: 136)

Ma ancora più notevole è il fatto che esso fosse contenuto nella lettera inviata dal Profeta stesso all'imperatore bizantino Eraclio - il più grande principe cristiano del tempo - lettera che recitava:

«Nel Nome di Dio, Misericordioso e Clementissimo. Da Muhammad servo di Dio e Suo Inviato a Eraclio sovrano dei Romani. Sia pace su chi segue la retta via. Ti chiamo alla sottomissione a Dio (Islām). Sottomettiti a Dio (aslim, "diventa musulmano"): sarai al sicuro, e Dio ti ricompenserà doppiamente! Se ti allontanerai, incorrerai nel peccato dei seguaci di Ario (al-arīsiyyūn) "Oh gente del Libro, avanti, innalzatevi a una Parola mediana tra noi e voi: non adorare altri che Dio, non associarGli nulla, e che di noi nessuno prenda altri per signori ad esclusione di Dio"» (si vedano gli ahādith n° 7 e 4553 della raccolta Sahīh di Al-Bukharī). [2]

Si noti come l'interpretazione del termine arīsiyyūn nel senso di "seguaci di Ario" - che è quella prevalente, essendo confermata da Al-Asqalanī, commentatore del Sahīh - sia particolarmente pregnante: di nuovo, nelle parole dell'Inviato di Dio Muhammad, che parla come "dal di dentro" dell'orizzonte dottrinale propriamente cristiano, ad essere confermata è l'idea dell'avvento dell'Islām come riproposizione "dell'ortodossia senza tempo" della Tradizione primordiale. [3

Liberamente tratto da
"L'idea - Il Giornale di Pensiero" - 2001 Anno VII n. 2

Note
[1] Al-'Alūsī tramanda da 'Adiyy ben Hātim (cristiano arabo che aveva abbracciato l'Islām): «Quando discesero le parole "che nessuno di noi prenda altri per signori ad esclusione di Dio", dissi al Profeta: «Ma noi non li adoravamo!». Lui allora disse: «Loro non vi dichiaravano lecite o illecite le cose [al di fuori degli ordini divini]?» «», risposi. «E' di questo che si tratta», concluse il Profeta».

Al-Mazharī giustamente applica l'indicazione implicita in queste parole coraniche ai rapporti interni alla comunità islamica, e in particolare al rapporto di obbedienza nei confronti del fondatore di una scuola giuridica (madhhab), che deve sempre avere un orientamento metafisico - rappresentato nel caso di specie dall'obbedienza all'Inviato di Dio: è infatti del tutto evidente come l'ammonimento contenuto in molte delle parole divine riferite apparentemente alla "gente del Libro" (o agli "idolatri") sia rivolto prima di tutto a chi legge il Testo sacro, e cioè ai Musulmani praticanti.
Al-Mazharī - che seguiva la "scuola giuridica" hanafita - ricorda dunque che questo versetto non critica l'obbedienza all'Inviato di Dio (صلّى اللَّه عليه و سلّم), e neppure «l'obbedienza, in ciò che è conforme alla Legge sacra, ai sapienti, ai santi e ai governanti, visto che Dio stesso dice «Prestate obbedienza a Dio, e obbedite all'Inviato e a coloro che hanno il potere tra voi». Invece, se si presta obbedienza a qualcuno su qualcosa che non sia conforme alla Legge sacra, è come «prendersi qualcuno per signore ad esclusione di Dio». Al-Bukharī e Muslim tramandano infatti da 'Alī: «Se v'è disobbedienza a Dio, non si deve obbedire a nessuno. L'obbedienza infatti è dovuta solo nel bene». [..]».

[2] Ismā'īl Haqqī riporta quella che sarebbe stata la risposta di Eraclio all'Inviato di Dio: «Noi rendiamo testimonianza che tu sei un Profeta, ma non possiamo lasciare l'antica Religione che Dio ha scelto per Gesù». Il Profeta restò ammirato da questa risposta, e disse: «Il loro regno è confermato sino al Giorno della Resurrezione».
Ben diverso, ricorda sempre Ismā'īl Haqqī, il caso di Cosroe, sovrano di Persia, che strappò un'analoga lettera del Profeta: Cosroe fu ucciso e il suo regno annientato.

[3] Altri comunque intendono per arīsiyyūn "contadini", essendo la maggior parte dei sudditi di Eraclio dediti all'agricoltura; le parole del Profeta «Se ti allontanerai, incorrerai nel peccato degli arīsiyyūn» avrebbero in tal caso per molti commentatori il senso «Se rifiuterai l'Islām, incorrerai anche nel peccato dei tuoi sudditi contadini che ti seguiranno nell'errore».
Altri ancora infine ritengono che arīsiyyūn significhi "pubblicani", e che il Profeta portando un esempio paradigmatico di un potere tirannico incurante del proprio dovere di aver cura dei sudditi, si fosse riferito agli agenti incaricati di raccogliere le imposte, i quali commettevano gravi soprusi ed erano invisi alla popolazione.

2 commenti:

  1. E' bello leggere come invece Alessandro Bausani ha tradotto (unica traduzione affidabile in italiano) il versetto 64 della III sura: "Dì: 'O gente del Libro! Venite a un accordo equo (e non innalzatevi che forse ha poco senso nella ns lingua)fra noi e voi..."

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    1. Ho letto più traduzioni del Corano, la più corretta e affidabile è proprio quella del Prof. Bausani. Ha ragione.

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