L'insegnamento di Padre Serafino del Monte Athos

بسم الله الرحمن الرحيم

L'insegnamento tradizionale si configura propriamente come una trasmissione sapienziale. Questa si svolge formalmente attraverso precise modalità operative che, pur modificandosi in funzione delle diverse tradizioni e dei diversi tipi umani cui tale insegnamento è di volta in volta riferito, ne garantiscono in definitiva la validità e l'efficacia. Conseguentemente, la compromissione della regolarità e della continuità di questa trasmissione compromette, immediatamente ed in egual misura, le possibilità reali di accesso al deposito sapienziale cui l'insegnamento è normalmente preposto ad introdurre - fatti salvi, chiaramente, ulteriori e straordinari interventi epifanici, che dischiudano intuitivamente una parte o l'interezza di tale deposito all'intelligenza del singolo, interventi che dipendono dall'esclusiva ed imperscrutabile Volontà della divina Provvidenza.

Questo brano di Jean-Yves Leloup descrive per via narrativa un esempio di iniziazione esicastica, nell'ambito della tradizione cristiana ortodossa d'Oriente. Non va comunque considerata una trattazione rigorosa dell'argomento. Il suo maggior merito è, più in generale, quello di prendere brevemente in considerazione alcuni aspetti fondamentali dell'insegnamento tradizionale: tra gli altri, la ricerca personale della conoscenza, la valutazione ed accettazione del discepolo da parte del maestro, la dimensione non-libresca dell'insegnamento, la completa remissione all'autorità sapienziale, l'eccedenza della Grazia - elargita nell'intuzione spirituale - rispetto a qualsiasi percorso autonomo di comprensione intellettuale; questi ed altri aspetti segnano caratteristicamente i tratti dell'insegnamento tradizionale, nella sua radicale differenza da qualsiasi forma di educazione profana.

«Quando X, un giovane filosofo francese, arrivò al Monte Athos, aveva già letto un certo numero di libri sopra la spiritualità ortodossa; in particolare, la Piccola Filocalia della Preghiera del Cuore, ed i Racconti di un Pellegrino Russo. Era stato sedotto, senza esserne stato veramente convinto.
Una liturgia vivida nella sua città gli aveva ispirato il desiderio di passare alcuni giorni al Monte Athos, in occasione delle sue vacanze in Grecia, per saperne un poco di più sul metodo della preghiera degli esicasti, quei silenziosi alla ricerca della "hesychia", ovvero della pace interiore.


Dire come arrivò da Padre Serafino, che viveva in un eremitaggio vicino a San Panteleimon, sarebbe troppo lungo. Diciamo solo che il giovane filosofo era un po' stanco. Non trovò monaci "all'altezza" dei suoi libri. Diciamo anche che, sebbene avesse letto molti libri sulla meditazione e la preghiera, non aveva mai veramente meditato, né praticato una forma particolare di preghiera, e quello che chiedeva in fondo non era un discorso sulla preghiera o la meditazione, ma una "iniziazione" che gli permettesse di viverla e di conoscerla dal di dentro, per esperienza e non solo per sentito dire.


Padre Serafino aveva una reputazione ambigua fra i monaci del suo ambiente. Alcuni lo accusavano di levitare, altri che gridava e piangeva, alcuni lo consideravano come un contadino ignorante, altri come un venerabile staretz ispirato dallo Spirito Santo e capace di dare consigli profondi così come di leggere nei cuori.
Quando si arrivava alla porta del suo eremitaggio, il padre Serafino aveva l'abitudine di osservare chi era appena arrivato in modo molto impertinente: dalla testa ai piedi per buoni cinque minuti, senza rivolgergli nessuna parola. Quelli che non scappavano a questo esame, potevano ascoltare la grezza diagnosi del monaco: «In lei non è sceso oltre il mento». «Non parliamone. Quello non è neanche entrato». «Lei.. Non è possibile, che meraviglia! E' sceso fino alle sue ginocchia..». Egli parlava dello Spirito Santo e della sua discesa più o meno profonda nell'uomo. Qualche volta alla testa, ma non sempre al cuore né all'intestino.. Era così che giudicava la santità di qualcuno, secondo il suo grado di incarnazione dello Spirito. L'uomo perfetto, l'uomo trasfigurato, era per lui quello abitato tutto intero dalla Presenza dello Spirito Santo, dalla testa ai piedi. «Questo l'ho visto una volta sola, nello staretz Silvano - aveva detto. Egli era veramente un uomo di Dio, pieno di umiltà e di maestà».

Il giovane filosofo non stava per nulla in queste condizioni. Lo Spirito Santo aveva trovato passo in lui solo "fino al mento". Quando chiese a Padre Serafino che gli parlasse della preghiera del cuore e della preghiera pura secondo Evagrio Pontico, il padre Serafino cominciò a piangere. Questo non scoraggiò il giovane, che insistette. Poi il padre Serafino gli disse: «Prima di parlare di preghiera del cuore, per prima cosa devi imparare a meditare come una montagna». Gli mostrò un'enorme roccia: «Chiedile come fa a pregare. Poi torna a trovarmi».

Meditare come una montagna
Cominciò così per il giovane una vera iniziazione al metodo di orazione esicastica. La prima meditazione che gli avevano proposto si riferiva alla stabilità, alla realizzazione di buone fondamenta. In effetti, il primo consiglio che si può dare a chi chiede di meditare non è di ordine spirituale, ma fisico: siediti.

Sedersi come una montagna vuol dire prendere peso, essere pieno di presenza. I primi giorni, era molto difficile per il giovane restare immobile, con le gambe incrociate, con la pelvi leggermente più alta delle ginocchia. Una mattina sentì realmente cosa voleva dire "meditare come una montagna". Stare lì con tutto il suo peso, immobile. Formare una sola cosa con lei, silenzioso sotto il sole. La sua nozione del tempo era leggermente cambiata. Le montagne hanno un tempo diverso, un altro ritmo. Stare seduto come una montagna è tenere l'eternità davanti, è l'attitudine giusta per chi vuole entrare nella meditazione: sapere che l'eternità è dietro, dentro e davanti a sé.
Prima di costruire una chiesa, è necessario essere pietra, e su questa pietra - questa solidità imperturbabile della roccia - Dio poté costruire la Sua Chiesa, e fece del corpo dell'uomo il Suo tempio. Così il giovane capì il senso delle parole evangeliche: "Tu sei pietra e su questa pietra costruirò la Mia Chiesa".
Rimase così molte settimane. L'aspetto più difficile era passare molte ore "senza fare niente". Era imparare ad essere, semplicemente stare, senza motivo né obiettivo. Meditare come una montagna era la meditazione stessa dell'Essere, "del semplice fatto di Essere", prima di qualsiasi pensiero, di qualsiasi pena o piacere.

Il padre Serafino lo visitava ogni giorno, condivise con lui i suoi pomodori e alcune olive. A dispetto di questo regime così frugale, il giovane sembrava però aver guadagnato peso. Il suo passo era tranquillo. Sembrava che la montagna gli fosse entrata nella pelle. Sapeva accogliere il suo tempo, accogliere lo spazio, stare silenzioso e tranquillo, qualche volta come la terra arida e dura, altre volte come il fianco di una collina che aspetta il raccolto. Meditare come una montagna aveva modificato anche il ritmo dei suoi pensieri. Aveva appreso a "vedere" senza giudicare, come se desse a tutto ciò che cresce nella montagna il "diritto di esistere".

Un giorno, dei pellegrini, impressionati dalla qualità della sua presenza, lo presero per un monaco e gli chiesero la benedizione. Quando lo scoprì, il padre Serafino cominciò a prenderlo a colpi. Il giovane cominciò a piangere: «Meno male, credevo che fossi diventato stupido come i ciottoli della strada! La meditazione esicasta necessita della stabilità della montagna, però il suo obiettivo non è di fare di te un corpo morto, ma un uomo vivo». [1]
Prese il giovane per il braccio e lo condusse al fondo del giardino, dove fra le erbe selvagge si potevano vedere alcuni fiori: «Ora non si tratta più di meditare come una montagna sterile. Impara a meditare come un papavero, anche se con questo non devi dimenticare la montagna».

Meditare come un papavero
Fu così che il giovane imparò a fiorire. La meditazione è prima di tutto un "fondamento", e questo era quello che gli aveva insegnato la montagna. Ma la meditazione è anche un "orientamento", ed è quello che adesso gli insegnava il papavero: volgersi verso il sole, volgere la parte più profonda di sé verso la luce. Far di ciò l'aspirazione di tutto il proprio sangue, di tutto il proprio vigore.
Questa orientazione verso il bello, verso la luce, qualche volta lo fece arrossire come un papavero. Comprese anche che per rimanere ben orientato, il fiore deve tenere il gambo ben eretto. Cominciò, quindi a raddrizzare la sua colonna vertebrale.

Questo gli procurò alcune difficoltà, perchè aveva letto in alcuni testi della Filocalia che il monaco deve stare leggermente curvo, con lo sguardo rivolto al cuore e all'intestino. Quando chiese un chiarimento al padre Serafino, gli occhi dello staretz lo guardarono con malizia: «Quello era per i forti di altri tempi. Loro erano pieni di energia e ciò era necessario per ricordare loro l'umiltà della loro condizione umana. Curvarsi un po' durante la meditazione non procura nessun danno. Però tu hai molta necessità di energia, e perciò durante la meditazione, drizzati, sii vigile, volgiti dritto verso la luce, però senza orgoglio. D'altra parte, se osservi bene il papavero, t'insegnerà non solo che il gambo è eretto, ma anche una certa flessibilità sotto l'ispirazione del vento, e quindi una grande umiltà».
In effetti, l'insegnamento del papavero consiste anche nella sua volatilità, nella sua fragilità. Doveva imparare sia a fiorire, che ad appassire. Il giovane comprese meglio le parole del profeta: "Tutta la carne è come l'erba, e tutta la sua gloria è quella del fiore dei campi. L'erba si secca, il fiore appassisce. Le nazioni sono come una goccia d'acqua di rugiada sul contorno di una bilancia. I giudici della terra sono appena piantati, appena radicati inaridiscono, e la tempesta li strappa come paglia" [Is 40].

La montagna gli aveva insegnato il senso dell'eternità, il papavero gli insegnava la fragilità del tempo: meditare è conoscere l'Eterno nella fugacità dell'istante, un istante retto, ben orientato. E' fiorire il tempo in quello che ci è stato dato da fiorire, amare nel tempo quello che ci è stato dato da amare, gratuitamente, senza perchè; allora perchè cosa fioriscono i papaveri?
Apprese così a meditare "senza obiettivo né beneficio", per il piacere di essere e di amare la luce. «L'amore ha in se stesso la sua ricompensa», diceva San Bernardo. «La rosa fiorisce perchè fiorisce, senza perchè», diceva anche Angelo Silesio. «La montagna fiorisce nel papavero - pensava il giovane. Tutto l'universo medita in me. Possa io arrossire di allegria tutto il tempo che dura la mia vita».

Questo pensiero era senza dubbio eccessivo. Il padre Serafino cominciò a scuotere il giovane, e di nuovo lo prese per il braccio. Lo condusse per una strada sterrata fino al bordo del mare, in una piccola baia deserta. «Smettila di ruminare come una mucca il senso dei papaveri. Acquista anche il cuore marino. Impara a meditare come l'oceano».

Meditare come l'oceano
Il giovane si avvicinò al mare. Aveva acquistato buone fondamenta ed un'orientazione retta. Stava in buona posizione. Che gli mancava? Che poteva insegnargli lo schizzare delle onde?
Il vento si levò. Il flusso ed il riflusso del mare divenne più profondo e risvegliò in lui il ricordo dell'oceano. In effetti, il vecchio monaco gli aveva consigliato di meditare "come l'oceano", e non come il mare. Come aveva indovinato che il giovane aveva passato lunghe ore sul bordo dell'Atlantico, soprattutto di notte, e che conosceva l'arte di mettere in accordo la sua respirazione con la grande respirazione delle onde?

Inspiro, espiro. E poi: sono inspirato, sono espirato. Mi devo lasciare prendere dal respiro, come ci si lascia prendere dalle onde. Fece il morto, portato dal ritmo della respirazione dell'oceano. Questo lo aveva condotto qualche volta sull'orlo di strane dissipazioni. Però la goccia d'acqua che in altro tempo "svaniva nel mare" oggi tenne la sua forma, la sua. Era effetto della sua posizione? Del suo radicamento nella terra? Era il ritmo approfondito della sua respirazione che lo prese. La goccia d'acqua conservava la sua identità, e senza dubbio sapeva "essere una" con l'oceano. Così il giovane imparò che meditare è respirare profondamente, permettere di andare al flusso e riflusso del respiro.

Imparò ugualmente che, sebbene vi fossero onde in superficie dell'oceano, il fondo dell'oceano continuava ad essere calmo. I pensieri vanno e vengono, noi ci riempiamo di schiuma, però il fondo dell'essere rimane immobile. Meditare a partire dalle onde per lasciarsi annegare e mettere radici nel fondo dell'oceano.
Tutto questo si faceva ogni giorno un poco più vivo, e si ricordò delle parole di un poeta che lo aveva impressionato durante l'adolescenza: «L'esistenza è un mare pieno di onde che non smettono di levarsi. Di questo mare, la gente normale percepisce solamente le onde. Guarda come dalle profondità del mare appaiono alla superficie onde innumerevoli, mentre il mare resta nascosto in esse».
Oggi il mare lo percepiva meno "nascosto nelle onde", l'unità delle cose sembrò più evidente, senza che ciò abolisse la loro molteplicità. Aveva meno necessità di opporre il fondo e la forma, il visibile e l'invisibile. Tutto costituiva l'unico oceano della sua vita. Nel fondo della sua anima non c'era forse il "ruh", lo "pneuma", il grande respiro di Dio?

«Colui che ascolta attentamente la propria respirazione - gli disse poi il padre Serafino - non è lontano da Dio. Ascolta cosa c'è lì, alla fine della tua espirazione che è l'origine della tua inspirazione». In effetti, c'erano momenti di silenzio molto profondi tra il flusso ed il riflusso delle onde, c'era qualcosa che pareva prendere in sé l'oceano.

Meditare come un uccello
«Stare sopra buone fondamenta, essere orientato verso la luce, respirare come l'oceano non è in ogni caso la meditazione esicastica - gli disse il padre Serafino. Ora devi imparare a meditare come un uccello». Lo chiuse così in una piccola cella accanto al suo eremitaggio, dove vivevano due tortore.
Il tubare dei due animali gli sembrò sul momento incantevole, ma non tardò a renderlo nervoso. Sembrava che scegliessero il momento in cui si addormentava per tubare con parole molto tenere. Chiese al vecchio monaco cosa volesse dire tutto ciò, e se la commedia sarebbe durata ancora a lungo. La montagna, il papavero e l'oceano potevano passare - sebbene uno potesse anche restare sorpreso per quello che c'era di cristiano in loro - ma ora proporgli questo languido uccello come maestro di meditazione era troppo.

Il padre Serafino gli spiegò che nell'Antico Testamento la meditazione si esprime con la radice "haga", tradotta generalmente in greco da mélété - meletan, ed in latino da meditari - meditatio. Nella sua forma primitiva, la radice significa "mormorare a media voce". Ugualmente si impiega per designare il verso degli animali, per esempio il ruggito del leone (Is 31:4), il cinguettio della rondine e il canto della colomba (Is 38:14), ma anche il grido dell'orso: «Al Monte Athos non ci sono orsi. Per questo ti ho portato vicino ad una tortora, ma l'insegnamento è lo stesso. Devi meditare con la gola. Non soltanto per accogliere il respiro, ma anche per mormorare il Nome di Dio, giorno e notte».

Quando sei felice, senza rendertene conto, canterelli; qualche volta mormori parole senza significato, e questo mormorio fa vibrare tutto il corpo di un'allegria semplice e serena. Meditare è mormorare come una tortora, permetti a questo canto che viene dal cuore di andare su, come hai imparato a lasciar salire in te il profumo che viene dal fiore.

Meditare e respirare cantando
«Senza soffermarti molto sul loro significato, ti propongo di ripetere, mormorare, cantare quello che sta nel cuore di tutti i monaci del Monte Athos: "Kyrie eleison, Kyrie eleison"».

Questo, al giovane filosofo non piacque molto. In alcuni funerali e matrimoni lo aveva sentito tradotto con "Signore, pietà".
Il monaco si mise a sorridere: «Sì, questo è uno dei significati di questa invocazione, ma ve ne sono ben altri. Vuol dire anche: "Signore, manda il Tuo Spirito", "Che la Tua tenerezza sia su di me e su tutti", "Che il Tuo Nome sia benedetto", e così via. Non cercare però di impadronirti del significato di questa invocazione, esso ti si rivelerà da sé. Per il momento, sii sensibile, e stai attento alla vibrazione che si provoca nel tuo corpo e nel tuo cuore. Cerca di armonizzarla quietamente con il ritmo del tuo respiro. Quando i pensieri ti tormentano, ritorna dolcemente a quell'invocazione, respira più profondamente, tieniti dritto e immobile, e conoscerai l'inizio della "esichia", la pace che Dio dà con generosità a coloro che Lo amano».

Dopo alcuni giorni il "Kyrie eleison" gli divenne un poco più familiare. Lo accompagnava come il ronzio accompagna l'ape quando fa il miele. Non lo ripeteva sempre con le labbra. Allora il ronzio diventava più interiore, e la sua vibrazione più profonda. Il "Kyrie eleison", il cui significato aveva rinunciato a "pensare", lo conduceva talvolta in un silenzio sconosciuto, e si ritrovava nell'attitudine dell'apostolo Tommaso, quando vide il Cristo risorto: "Kyrie eleison, mio Signore e mio Dio".

L'invocazione lo innalzava poco a poco in un clima d'intenso rispetto per tutto ciò che esiste, ed all'adorazione per ciò che è nascosto nella radice di tutta l'esistenza. Padre Serafino allora gli disse: «Ora non sei lontano dal meditare come un uomo. Debbo insegnarti la meditazione di Abramo».

Meditare come Abramo
Fin qui, l'insegnamento dello staretz era di ordine naturale e terapeutico. Secondo la testimonianza di Filone di Alessandria, gli antichi monaci erano, appunto, "terapeuti". Ma per condurre all'illuminazione, il loro ruolo era di curare la natura; di metterla, cioé, nelle migliori condizioni per poter ricevere la Grazia, che non contraddice la natura, ma la restaura e la completa.
E' quello che faceva il vecchio monaco con il giovane filosofo, insegnandogli un metodo di meditazione che alcuni potrebbero chiamare "puramente naturale". La montagna, il papavero, l'oceano, l'uccello, erano altrettanti elementi della natura che ricordano all'uomo che deve andare più lontano, ricapitolare i differenti livelli dell'essere, o meglio i differenti regni che compongono il macrocosmo: il regno minerale, il regno vegetale, il regno animale.. L'uomo ha perso contatto con il cosmo, con la roccia, con gli animali, e questo ha provocato in lui malesseri: malattie, insicurezza, ansietà. La persona umana si sente "di troppo", estranea al mondo.

Meditare era cominciare ad entrare nella meditazione e nella lode dell'universo, perchè - come dicevano i Padri - "tutte le cose sanno pregare prima di noi". L'uomo è il luogo in cui la preghiera del mondo prende coscienza di se stessa; esiste per nominare ciò che balbettano le creature.
Con la meditazione di Abramo, entriamo in una coscienza nuova e più alta, che si chiama "fede", ossia l'adesione dell'intelligenza e del cuore in quel "Tu" che si rende trasparente nella molteplice intimità di tutti gli esseri. Questa è l'esperienza di Abramo: dietro il fremito delle stelle vi è qualcosa di più che le stelle, una presenza difficile da nominare, che nulla può nominare e che senza dubbio può nominare tutto. E' qualcosa di più che l'universo e che tuttavia non può essere compresa se non nell'universo. La differenza che c'è tra l'azzurro del cielo e l'azzurro di uno sguardo. Abramo andava alla ricerca di questo sguardo.

Dopo avere appreso la posizione tranquilla e immobile, il raddrizzamento, l'orientazione positiva verso la luce, il respiro pacificante degli oceani, il canto interiore, il giovane era stato invitato al risveglio del cuore: «Ecco, tutt'un tratto sei qualcuno».
E' proprio del cuore, in effetti, personalizzare tutto, ed in questo caso personalizzare l'Assoluto, la Fonte di tutto ciò che esiste e respira, nominarLo, chiamarLo "mio Dio, mio Creatore" e andare alla Sua Presenza. Per Abramo, meditare è mantenere il contatto con questa Presenza sotto le apparenze più svariate. Questa forma di meditazione entra nei dettagli concreti della vita di ogni giorno. L'episodio della quercia di Mamre ci mostra Abramo "seduto all'entrata della tenda, nell'ora più calda del giorno"; e là accoglie tre stranieri, che si rivelano essere degli inviati di Dio.
«Meditare come Abramo - diceva Padre Serafino - è praticare l'ospitalità; il bicchiere d'acqua che dai a colui che ha sete non ti allontana dal silenzio, ma ti avvicina alla sorgente. Meditare come Abramo, lo capisci, non solo risveglia in te la pace e la luce, ma anche l'Amore per tutti gli uomini».

Il padre Serafino lesse allora al giovane quel famoso passo del libro della Genesi, dove si parla dell'intercessione di Abramo. "Abramo stava davanti a YHWH. Si avvicinò e disse: «Vai e sterminerai il giusto con il peccatore? Forse vi sono cinquanta giusti nella città, e non perdonerai la città per quei cinquanta giusti che vi si trovano?» Poco a poco, Abramo dovette ridurre il numero dei giusti, perchè Gomorra non fosse distrutta. «Non si adiri il mio Signore se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci!»" [Gen 18:23] .
Meditare come Abramo è intercedere per la vita degli uomini, non ignorare nulla della loro corruzione e tuttavia non disperare mai della Misericordia di Dio. Questo stile di meditazione libera il cuore da qualsiasi giudizio e condanna, sempre e ovunque. Pur di fronte ad infiniti orrori, egli chiede sempre perdono e benedizione.

Meditare come Abramo conduce ancora più lontano. Le parole facevano fatica ad uscire dalla gola del padre Serafino, come se questi avesse voluto risparmiare al giovane un'esperienza attraverso la quale lui stesso era passato, e che ridestava nella sua memoria un sottile tremore. «Ci può condurre fino al Sacrificio».
Egli citò il passo della Genesi nel quale Abramo si mostra disposto a sacrificare suo figlio Isacco. «Tutto appartiene a Dio - mormorò il padre Serafino - e tutto è Suo, viene da Lui ed è per Lui». Meditare come Abramo conduce alla completa spoliazione di te stesso e di ciò che hai di più caro, qualcosa a cui tieni particolarmente, con cui identifichi il tuo "io". Per Abramo si trattava del suo unico figlio; se tu sei capace di questo dono, di questo totale abbandono morale, di questa infinita fiducia in Colui che trascende ogni ragione ed ogni significato comune, tutto ti sarà restituito centuplicato. «Dio provvederà».

Meditare come Abramo è aderire per fede a ciò che trascende l'universo, è praticare l'ospitalità, intercedere per la salvezza di tutti gli uomini. E' dimenticare se stessi e spezzare i legami più intimi per scoprire se stessi, il nostro prossimo e tutto l'universo abitato dalla Presenza infinita di "Colui che Solo è".

Meditare come Gesù
Il padre Serafino si mostrava sempre più discreto. Notava i progressi che il giovane faceva nella sua meditazione e preghiera. Parecchie volte lo aveva sorpreso, con il viso bagnato di lacrime, a meditare come Abramo, ad intercedere per tutti gli uomini: «Mio Dio, misericordia. Che sarà dei peccatori?».
Un giorno il giovane venne da lui e gli chiese: «Padre, perchè non mi parlate mai di Gesù? Come era la sua preghiera, la sua forma di meditazione? Nella liturgia e nei sermoni non si parla che di Lui. Nella preghiera del cuore, quale la descrive la Filocalia, occorre invocare il suo nome. Perchè non me ne dite nulla di ciò?».

Padre Serafino sembrò turbato; come se il giovane gli domandasse qualcosa di indecente, come se fosse costretto a rivelargli il suo segreto. Più grande è la rivelazione che si è ricevuta, più grande dev'essere l'umiltà per trasmetterla. Indubbiamente egli non si sentiva abbastanza umile: «Questo, soltanto lo Spirito Santo può insegnartelo: "Nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" [Lc 10:22]. Devi diventare figlio per pregare come il Figlio, ed avere con Colui che Egli chiama suo Padre le stesse relazioni d'intimità; e questa è l'opera dello Spirito Santo. Egli ti ricorderà tutto ciò che Gesù ha detto. Il Vangelo diventerà vivo in te e ti insegnerà a pregare nel modo giusto».

Il giovane insisté: «Ditemi ancora qualcosa!». Il vecchio sorrise: «Ora, la cosa migliore che potresti fare è piangere. Però tu lo prenderesti come un segno di santità; pertanto è meglio parlarti con semplicità. Meditare come Gesù ricapitola tutte le forme di meditazione che ti ho trasmesso finora. Gesù è l'Uomo Cosmico. Sapeva meditare come la montagna, come il papavero, come l'oceano, come la colomba. Sapeva meditare come Abramo. Il suo cuore non aveva limiti, amando sia i suoi nemici che i suoi carnefici: "Padre, perdonali perchè non sanno quello che fanno". Praticando l'ospitalità verso gli infermi ed i peccatori, i paralitici, la prostituta. Di notte si ritirava a pregare in segreto, e mormorava come un bambino: "Abba", che vuol dire "papà". Questo può sembrare insignificante, chiamare "papà" il Dio trascendente, infinito, innominabile, oltre ogni cosa. Forse è necessario che qualcuno Lo chiami "papà" nell'oscurità, per comprenderLo. Ma forse oggi queste relazioni intime di un padre e di una madre con un figlio non hanno più significato. Forse è una cattiva immagine.
Per questo preferisco non dirti niente, non usare immagini e sperare che lo Spirito Santo ponga in te i sentimenti e la conoscenza di Gesù Cristo, in modo tale che questo "Abba" non ti esca dalle labbra, ma venga dal profondo del cuore. Quel giorno comincerai a comprendere che cos'è la preghiera e la meditazione degli esicasti».

Ed ora, va'!
Il giovane rimase ancora alcuni mesi sul Monte Athos. La preghiera di Gesù lo trasportava negli abissi, talvolta al limite di una certa "follia". «Non più io vivo, è Cristo che vive in me», poteva dire con San Paolo. Delirio di umiltà, d'intercessione, di desiderio "che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla piena conoscenza della Verità". Diventava Amore, diventava fuoco. Il roveto ardente non era più, per lui, una metafora, ma realtà: "Ardeva, eppure non Si consumava". Strani fenomeni di luce succedevano nel suo corpo. Certi dicevano di averlo visto camminare sull'acqua, o stare immobile a trenta centimetri da terra.

Questa volta Padre Serafino gemette: «Basta! Adesso va'!», e gli intimò di lasciare l'Athos e di ritornare a casa; là avrebbe visto che cosa restava delle sue meditazioni esicastiche.
Il giovane partì, e fece ritorno nel suo paese.

Liberamente tratto da
"L'idea - Il Giornale di Pensiero" - 2001 Anno VII n. 2

Note
[1] «Baso, quando viveva a Demboin, usava rimanere seduto a gambe incrociate a meditare. Il suo maestro, Nan-yuen Huai-jang (Nangaku Yejo, 677-744), una volta che lo vide in quella posizione, gli chiese: «Che cerchi costì, sedendo a gambe incrociate?». Rispose: «Il mio desiderio è divenire un Buddha». Al che, il maestro prese un pezzo di mattone e si mise a sfregarlo con tutta la sua forza contro una pietra. «Che volete fare, maestro?» chiese Baso. «Voglio fare di questo mattone uno specchio». «Non vi è sfregare che possa fare di un mattone uno specchio, o Signore». «Se è così, non v'è star seduto a gambe incrociate, come tu fai, che di te possa fare un Buddha», replicò il maestro.»

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